È risaputo che il mondo della Supply Chain sia di per sé molto dinamico, avendo come campo di gioco il mondo intero, ma negli ultimi anni ha subito un’accelerazione talmente drastica che ha costretto qualsiasi azienda a rimettere in discussione le logiche interne della propria organizzazione. Eventi drastici e drammatici come il Covid, il blocco del canale di Suez e le recenti guerre hanno solamente aperto un vaso di Pandora, tracciando quello che sarà il trend del futuro: un mondo sempre più incerto e una Global Supply Chain che deve essere sempre più flessibile e camaleontica.
Negli scorsi anni, parlando di gestione della Supply Chain, siamo sempre stati abituati ad uno scontro ricorrente, quello tra la riduzione dei costi e la flessibilità nelle consegne. I sostenitori della prima fazione andavano in giro per il mondo alla ricerca del saving più spinto sul singolo componente. Con le RfQ alla mano, perlustravano le zone con il costo del lavoro più basso e con un dignitoso livello di qualità dei prodotti. Di contro, si creavano delle Supply Chain intricatissime, dove le materie prime e i semilavorati attraversavano il mondo prima di arrivare in azienda. I fan della seconda fazione, invece, avevano tutta la loro Supply Chain nel raggio di 50 km, fornitori fidati e solitamente con una dependency altissima a cui potevano chiedere anche i miracoli e le famose consegne “per ieri”, con la certezza che ogni loro desiderio venisse esaudito. Il risultato era un ingente numero di ordini, telefonate, mail con priorità, traffico di mezzi e costi fuori controllo.
Il primo obiettivo che i Supply Chain Manager di tutto il mondo si sono posti per far fronte agli tsunami degli ultimi anni è quello della riduzione del rischio, o meglio, della “diversificazione” del rischio. Si tende quindi a cercare fornitori alternativi anche per beni strategici, a discapito dell’efficienza, ma a favore della flessibilità. Una delle tendenze in questo senso è quella denominata “nearshoring”, che ha il fine di ridurre la dispersività di alcune Supply Chain. Questo fenomeno, definito dall’Economist “slowbalization”, mostra un rallentamento nell’outsourcing oltreoceano della propria produzione o della propria fornitura, supportato anche dai vari sussidi erogati dai governi per sostenere i produttori nazionali.
Visti gli ultimi anni abbastanza turbolenti, è risultato quasi d’obbligo fermarsi e, se necessario, ridisegnare la struttura della propria Supply Chain. Per gestire in modo efficiente una Supply Chain globale, è fondamentale adottare l’analisi del Total Cost of Ownership (TCO). Questa metodologia valuta i costi a 360 gradi, inclusi costi diretti, costi gestionali e fattori di rischio, offrendo una visione completa che consente di ottimizzare i processi e migliorare l’efficienza complessiva della Supply Chain.
Per fare una corretta valutazione del TCO bisogna prendere in esame 3 fattori principali:
Presenti in qualsiasi transazione tra clienti e fornitori. Oltre al costo intrinseco del bene, sono da considerare anche i costi di imballo, trasporto, termini di pagamento e oneri doganali.
In una fase di valutazione del potenziale fornitore abbiamo i cosiddetti costi di preordine, ovvero tutti i costi da sostenere prima dell’invio del primo ordine. A questi saranno da sommare i cosiddetti costi di esercizio, relativi, ad esempio, all’emissione di un ordine, alla gestione della conferma, al controllo di qualità e quantità, controllo fatture e pagamento. Infine, vanno aggiunti i costi indiretti, come i solleciti e la gestione in caso di ritardi nelle consegne, la gestione delle eventuali non conformità in termini qualitativi e lo stock di sicurezza da tenere per evitare interruzioni della produzione.
Sono collegati direttamente al fornitore, come la sua situazione economico-finanziaria, la sua dimensione e struttura, il suo livello di competenza nel prodotto, la disponibilità alla collaborazione, la sua flessibilità e il rispetto delle norme di sicurezza. È dunque necessaria una Consulenza per un’attenta valutazione di questi parametri, per avere una base di partenza su cui andare a costruire le nuove strategie aziendali.
Un cambio di prospettiva può sicuramente essere dato dalla Supply Chain end-to-end (E2E), un paradigma in cui tutte le funzioni facenti parte della Supply Chain sono integrate tra loro, migliorando l’efficienza grazie ad una maggiore visibilità dell’intero processo. Questo approccio si contrappone alla classica visione in cui ogni funzione è isolata e gestita separatamente, con la convinzione che la massimizzazione del risultato ottenuto da ciascuna di esse porti automaticamente ad un miglior raggiungimento degli obiettivi da parte dell’azienda.
Per comprendere al meglio questa metodologia bisogna, innanzitutto, pensare la Supply Chain come una filiera i cui componenti principali sono:
Il collante per l’integrazione dei processi citati sopra è sicuramente la digitalizzazione, tramite un sistema ERP, al fine di avere visibilità e controllare in tempo reale tutti gli step di questo processo. Insieme ad esso i principali fattori che rendono una Supply Chain E2E vincente sono:
I primi vantaggi di questo approccio sono sicuramente la prevenzione e la riduzione dei rischi, avendo una visibilità completa che elimina i cosiddetti “punti ciechi” lungo il processo. Inoltre, vi sarà una migliore relazione con fornitori e clienti, dovuta proprio alla trasparenza che il metodo propone.
Come detto all’inizio del paragrafo, per gestire al meglio una Supply Chain E2E bisogna conoscere e affrontare i compromessi tra le varie funzioni, sapendo che le decisioni che vengono prese all’interno di una di esse possono influire sulle prestazioni di altre. Ciascun livello deve quindi conoscere le connessioni esistenti dal fornitore al cliente finale e pianificare le sue azioni di conseguenza.
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